la diossina nel cervello

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ilvamaroni
Ieri alla trasmissione “Ballarò” Roberto Maroni, l’azzannatore di polpacci, l’ex ministro del governo che ha portato definitivamente alla rovina il nostro paese, ha dato il meglio di sé. Incalzato dalla ottima e precisa economista Irene Tinagli, messo di fronte alle proprie responsabilità il suonatore di jazz in camicia verde ha incominciato ad innervosirsi e ha sciorinato una serie di castronerie degne del peggiore Borghezio. E questo per giustificare l’attacco a Monti, quello che qualche anno fà lo stesso Maroni, come da lui stesso  confessato, aveva appoggiato perché  “varesino”. In attesa di nominare i reduci dalle patrie galere delle “bestie di Satana” propri autorevoli portavoce se non altro perché “varesini” il leader del movimento più discusso del momento, quello che proprio oggi  si è visto sospendere l’erogazione del finanziamento pubblico per “irregolarità” (quanto è sottile  la diplomazia dei revisori dei conti) del bilancio 2010, si è lanciato nel solito attacco al sud.

Dopo il consueto piagnisteo nel tipico stile “chiagni e fotti” dei legaioli: “Basta andare a vedere il rapporto delle spese al nord rispetto ad alcune regioni del sud” Maroni ha denunciato “gli interventi che questo governo ha fatto, da ultimo quello sull’ILVA, del decreto ILVA, che non è a favore dell’ILVA, ma che sono 360 milioni di euro messi li per altre questioni mentre degli stessi problemi delle aziende del nord il governo non se n’è proprio filato”.
Allora va ricordato al sig. Maroni che l’ILVA è un’azienda del gruppo Riva, quel simpatico vecchietto che si gode la sua prigionia dorata nella sua bella villa di Varese (guarda un po’) e che quei 360 milioni di euro dovrebbero essere una piccola mancetta per correggere solo parzialmente  i danni che il suo amico varesino ha fatto nei confronti di una popolazione che non essendo “varesina” non merita il rispetto del saxofonista fallito.
Ci dovrebbe spiegare il sig. Maroni perché quei soldi dovrebbero essere elargiti dallo stato all’ILVA e al suo amico varesino accusato dalla magistratura pugliese di “disastro ambientale” e che ancora oggi si trova agli arresti domiciliari.
Probabilmente dopo avere frequentato per anni, fra i banchi del suo governo puttanieri, super imputati, super impuniti, il sig. Maroni  pensa che gli amici e gli amici degli amici debbano sempre avere un trattamento di favore, qualsiasi cosa facciano.
 Vorremmo ricordare al sig. Maroni che per gli stessi problemi del nord questo governo si è comportato in maniera molto ma molto più generosa. Ma a forza di soffiare con forza nel sax il povero Maroni è diventato inconsapevolmente smemorato.
E allora è doveroso ricordare al capo della lega che solo per la bonifica di Porto Marghera questo governo ed il ministro Clini hanno erogato 3 miliardi di fondi pubblici, quasi dieci volte la mancetta data alla popolazione della città tarantina.
Chiaramente a ringraziare per la particolare attenzione il saxofonista fallito sono i bambini dei reparti di oncologia di Taranto, sempre ammesso che non risultando “varesini” possano destare la pietà dell’azzannatore di polpacci in camicia verde.
 Sig. Maroni potremmo tranquillamente  fare nostro il suo modo di ragionare e non avremmo difficoltà ad affermare che la riteniamo una persona insensibile e razzista per il solo fatto che lei sia “leghista”, ma le assicuriamo che il nostro giudizio nei suoi confronti è scevro da pregiudizi precostituiti. 
Noi la giudichiamo per quello che dice e per quello che fa e di questo, ne può essere certo, non può andarne fiero.

 

a forza di ramazzare nulla resta

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In questi giorni abbiamo assistito alle lacrime compassionevoli del finto medico implorante nei confronti di un’osannante folla, tramortita dalla sgradita scoperta che il finto popolo, inventato per garantire ai furboni una sicura pensione, non è poi così onesto.
Le lacrime sono servite per salvare il figlio bamboccione ma non la maldestra badante.
Cacciato il lestofante ragionier Fantozzi comodo capro espiatorio di poco oneste abitudini nel gestire i soldoni, ricevuti da noi contribuenti, il nuovo capetto si è proposto come novello Savonarola, mostrandosi pudicamente sorpreso da si tanto lerciume come se in questi anni fosse vissuto in altro continente e non avesse scaldato le stesse poltrone e mangiato le stesse leccornie del piagnucolante commediante.
Ma sguainate le scope è pronta la nuova crociata che spinge a far pulizia dopo che l’escremento è già stato depositato. Il cappio verde si stringe e guardinghi si guardano intorno perchè a forza di si ramazzar il manico potrebbe finire in pertugi non proprio adatti e all’uso dolorosi.

Con la ramazza in mano anche il deputato Polledri della lega nord di Piacenza nel giorno in cui viene arrestato l’ex assessore leghista Allegri. Ma tanto pulizia era già stata fatta, tuona l’aspirante sindaco. Ma a forza di ramazzar nulla resta.
Noi aspettiamo fiduciosi sentendo in lontananza il tintinnar delle manette, perchè siam certi che oggi litigano, si fan le scarpe, si mostrano distanti dagli amici ladri ma prima o poi riprenderanno a mangiare ed il cappio continuerà a stringersi.
perchè come diceva il grande Trilussa:

“Prima de cena liticamo spesso
pe’ via de ’sti princìpi benedetti:
chi vo’ qua, chi vo’ là… Pare un congresso!

Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma
ce dice che so’ cotti li spaghetti
semo tutti d’accordo ner programma.”

Il tintinnare delle manette

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Ieri con il cappio in Parlamento oggi con i Carabinieri e la Guardia di Finanza nella sede della lega. Questo è l’involuzione del Movimento di Bossi ormai sempre più vicino alla fine del vecchio Partito Socialista di Craxi.
Noi sentiamo il dolce tintinnio delle manette ed intanto incominciamo a raccogliere le monetine, perchè non vorremmo farci trovare impreparati quando la fine della lega arriverà.

Renzo “la Martinella”, ovvero il campanaccio della Lega

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Dopo le sale deserte al cinema, il  flop leghista, il film “Barbarossa”, fortemente voluto dalla lega va in onda, in questi giorni, in prima serata su raiuno.
Per ricordare la vicenda che ha portato alla nascita del polpettone padano-leghista con i soldi romani, riproponiamo l’articolo di “Lamanodedios” postato su questo blog meno di tre anni fà.

“ Berlusconi: Senti, io … poi avevo bisogno di vederti ..
Saccà: Si.
Berlusconi: perché c’è Bossi che mi sta facendo una testa tanto ..
Saccà: si .. si ..
Berlusconi: .. con questo cavolo di .. fiction .. di Barbarossa ..
Saccà: Barbarossa è a posto per quello che riguarda .. per quello che riguarda RAI fiction, cioè in qualunque momento …
Berlusconi: allora mi fai una cortesia …
Saccà: si
Berlusconi: puoi chiamare la loro soldatessa che hanno dentro il consiglio ..
Saccà: si.
Berlusconi: .. dicendogli testualmente che io t’ho chiamato …
Saccà: va bene, va bene ..
Berlusconi: …che tu mi hai dato garanzia che è a posto ..
Saccà: si, si è tutto a posto ..
Berlusconi: .. chiamala, perché ieri sera ..
Saccà: la chiamo subito Presidente …
Berlusconi: … a cena con lei e con Bossi, Bossi mi ha detto “ma insomma .. di qui di là” … dice … Ecco, se tu potevi fare sta roba …mi faresti una cortesia.
Saccà: allora diciamola tutta … diciamola tutta Presidente .. cosi lei la sa tutta, intanto il signor regista ha fatto un errore madornale perché un mese fa … ha dato – e loro lo sanno –  ha dato un’intervista alla Padania, dicendo che aveva parlato con Bossi e che era tutto… io, ero riuscito a rimetterla in moto la cosa, che era tutto a posto perché aveva parlato col Senatùr .. bla, bla, bla … il giorno dopo il Corriere scrive …

Berlusconi: esiste … (parola incomprensibile) …
Saccà: in due pezzi, dicendo, Saccà fa quello che gli chiede la ..(parola incomprensibile) le mando poi gli articoli … così…
Berlusconi: chi è il regista?
Saccà: il regista è Martinelli, che è un bravo regista, però è uno stupido,un ingenuo, un cretino proprio…
Berlusconi: uhm …
Saccà: un cretino, mi ha messo in una condizione molto difficile, perché mi ha scritto un articolo sul corriere della sera … e poi non contento, Grasso sul Magazine del Corriere della sera … scrive il potente Saccà fa quello che gli dice Berlusconi e basta … ecc. .. che poi, non è vero, lei non mi ha chiesto mai …
Berlusconi: allora ascoltami…
Saccà: lei è l’unica persona che non mi ha chiesto mai niente … voglio dire …
Berlusconi: io qualche volta di donne … e ti chiedo … perché ..
Saccà: si, … ma mai …
Berlusconi: … per sollevare il morale del capo .. (ridendo)
Saccà: eh esatto, voglio dire … ma, mi ha lasciato una libertà culturale di … ideale totale .. voglio dire .. totale .. e questo lo sanno tutti, allora perché, e, malgrado questo, io sono stato chiamato poi dal Presidente, dal Direttore Generale: “Mah! Com’è sta cosa!?” Questa cosa vale perché, vale perché Barbarossa è Barbarossa, perché Legnano è Legnano…
Berlusconi: certo, certo …
Saccà: perché i Comuni a Milano hanno segnato la civiltà dell’occidente .. voglio dire ..
Berlusconi: d’accordo .. va bene …”

 

Quanto riportato è la trascrizione dell’arcinota intercettazione della telefonata avvenuta il tardo pomeriggio del ventuno giugno 2007 fra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e l’allora  direttore di RAI Fiction Agostino Saccà. Proprio quest’ultimo, fra una genuflessione e una riverenza, espone la questione del film “Barbarossa” all’epoca ancora in fase di elaborazione. E siamo sicuri che il nostro gioviale Presidente avrà fra sé e sé senza dubbio riso di gusto quando, alla prima del film, al Castello Sforzesco di Milano, gli hanno presentato Renzo Martinelli. “Uno stupido, un ingenuo, un cretino proprio…” come lo aveva apostrofato il collerico e fido Agostino.

Fatto sta che nel giro di neanche due anni, Renzo Martinelli ha tirato su una bella palandrana. Uno scherzetto da trenta milioni di dollari, finanziato circa per il quaranta per cento dal Ministero dei Beni Culturali, da RAI Fiction (quella di Agostino Saccà) e da RAI Cinema. Girato, insomma, con dodici milioni di tasca nostra. Niente a che vedere – per carità! – con la condanna dei ministri Bondi e Brunetta nei confronti degli “artisti parassiti”, e neanche con la nota di biasimo del presidente del Veneto, il forzista Giancarlo Galan, indirizzata alla regione Sicilia per il finanziamento di Baarìa di Tornatore. Accusa che, anche non volendo per nulla parteggiare per il governatore Lombardo, non sta in piedi, dato che la regione Sicilia gode dello statuto speciale.

Forte di una troupe di centoquindici tecnici e di un plotone di circa dodicimila comparse – tutto “zingarume rumeno a quattrocento, cinquecento euro la settimana” come sostenuto dallo stesso umbertoso cineasta –, in ventiquattro settimane Renzo ‘la Martinella’ (è così che si chiama nella tradizione il campanaccio del Carroccio) riesce a portare a termine la sua faticosissima opera.  “Internazionale” – asserisce – “perché si gira in inglese e sarà venduta all’estero. Con il montaggio serrato, le eccezionali scene di battaglia, è destinato al pubblico giovane che affolla le multisale in tutta Italia.” Peccato che il ‘Barbarossa‘ questa incredibile folla di giovani avidi di guerreggiamenti non l’abbia vista neanche da lontano. Tanto che, fino allo scorso fine settimana, in tutto il Veneto – in cui il sentimento d’identità padana scalda il cuore del 27% degli elettori – c’erano stati solo poco meno di settemila paganti, mentre in Calabria gli spettatori erano addirittura meno di quattrocento. Un flop clamoroso in tutto e per tutto.

Qualche gridolino solo da parte dei partecipanti alla annuale festa della Lega – nella quale è stato mandato a tutto schermo un promo del film –, i complimenti vivissimi dei rappresentanti del Carroccio e Pdl presenti al Castello Sforzesco, assieme alla pittoresca banda di cornamuse bergamasche, la “Berghem Bagatt”, e addirittura con la confessione shock da parte di un emozionato Ignazio La Russa che ha rivelato agli attoniti astanti di aver interpretato anche lui, giovane virgulto siculo, Alberto da Giussano nel corso d’una recita scolastica. A parte tutto questo teatrino, tanto rumore per niente.

Perché neanche il tentativo di metempsicosi del ‘Senatur’ riesce nell’intento di chiamare all’adunata nei cinema quanti più legaioli possibile. “Il Barbarossa oggi non è una persona, ma è uno Stato: l’Italia centralista” – afferma – “e il nuovo Alberto da Giussano sono io”. Insomma, un Bossi uno e trino, capace di essere contemporaneamente se stesso – il Senatùr da tutti acclamato -, Alberto da Giussano ed anche l’odiatissimo Barbarossa, essendo ancora, malauguratamente per lui e per noi, un ministro della Repubblica italiana «una e indivisibile» (art. 5), che ha prestato solenne giuramento di fedeltà alla Costituzione.

In un’intervista a “Famiglia Cristiana”, del suo “Barbarossa” il nostro Martinelli dice: “È un pezzo della nostra storia che pochi conoscono. E a me preme raccontare storie vere. Sulla mia scrivania ci sono montagne di documenti preparatori per girare film sulla tragedia del Moby Prince, sul dramma di Ustica, sulla morte di Mussolini”.

E speriamo che sulla sua scrivania rimangano, questi benedetti documenti, se il risultato sarà anche solo lontano parente al ‘Barbarossa’, per ora campione soltanto di infedeltà storica. Perché dopo pochi fotogrammi del film si comprende subito che, fra “i pochi conoscitori della vicenda storica”, Renzo Martinelli non c’è proprio.

Già un film che dovrebbe essere un’esaltazione della padanità – realizzato, fra l’altro, da uno che è favorevole all’idea di prendere le impronte digitali ai bambini immigrati perchè “vorrei sapere chi viene a casa mia”- ma che, invece, viene girato totalmente in Romania con tecnici e comparse rumene, e che ha come protagonisti un israeliano (Raz Degan) ed una polacca (Kasia Smutiniak), parte, sul piano della coerenza, certamente malissimo.

Per non parlare, poi, dello straordinario labor limae per cui il nostro regista-campanaccio ed il suo consulente storico Federico Rossi di Marignano – autore del saggio ‘Federico Barbarossa e Beatrice di Borgogna. Re e regina d’Italia’, edito da Mondadori, guarda caso –, si sono distinti nella ricostruzione storica degli eventi.

In primo luogo, Alberto da Giussano non è mai esistito. O meglio, un Alberto da Giussano è sicuramente vissuto al tempo della Lega Lombarda, ma non se ne trovano tracce né negli atti della famiglia Giussani di Milano, né nelle cronache coeve alla battaglia di Legnano. La leggenda dell’Alberto da Giussano condottiero è senza dubbio da ricondursi alla cronaca che il frate domenicano Galvano Fiamma – vissuto fra il XIII e il XIV – scrisse per compiacere il signore dell’epoca Galeazzo Visconti, e a cui serviva una personalità milanese – reale o fittizia non aveva importanza – da contrapporre a Federico I Hohenstaufen, volendo arricchire d’eroismo la vicenda della battaglia. La “Cronica Galvaniana” fu poi edita nel 1869 da Ceruti in “Miscellanea di storia italiana”. Ed è probabilmente grazie alla conoscenza di quest’opera che Giosuè Carducci, poeta nazionale, affascinato dalla figura di Alberto da Giussano, decise nel 1879 di farne uno dei protagonisti della sua celebre opera “Della Canzone di Legnano“. Così come Garibaldi – lo stesso “stronzo” nizzardo di cui Bossi parla tanto – incoraggiò il comune di Legnano ad erigere una statua alla figura del comandante della Compagnia della Morte “per ricordare uno dei fasti più gloriosi della nostra storia, in cui ebbe parte tutta Italia. Il giorno in cui l’Italia avrà bisogno di noi, noi ci saremo tutti, non mancherà nessuno. Figli dei vincitori di Legnano, ove i nostri antenati menarono bastonate agli austriaci, noi non dobbiamo essere meno prodi di loro. Quando noi faremo quanto i nostri padri fecero a Legnano, nessuno straniero resterà fra noi”.

L’effigie della statua di Alberto da Giussano campeggia ora al centro dello stemma della Lega Nord. E ci pare ridicolo che un simbolo del Risorgimento italiano, dell’unità e dell’identità nazionale sia stato scippato brutalmente dai legaioli, sempre talmente ignoranti da non sapere neppure la provenienza del vessillo sotto il quale militano. Ma la figura di Alberto da Giussano resta ancora così improbabile che Giuseppe Verdi – un patriota attento alla veridicità storica – nella sua opera “La battaglia di Legnano” non cita, né fa riferimento minimamente ad Alberto da Giussano, fantomatico condottiero milanese.

Per non parlare poi della assoluta mancanza di rispetto da parte delle due già citate brillanti menti padane per il quadro politico degli avvenimenti in cui si colloca la vicenda storica scarabocchiata, più che abbozzata, nel film. Perché dietro alle tante grida milanesi di “Libertà!” – una pappagallesca via di mezzo fra le cinematografiche urla di battaglia dei “300” di Leonida e il “Freedom!” di William Wallace – non si parla mai né di guelfi, né di ghibellini. Eppure la vicenda storico-politica del Barbarossa – quello vero – ruota tutta attorno a questo insanabile conflitto fra le due fazioni.

Federico I Hohenstaufen, ghibellino per parte di padre e guelfo per parte di madre, fu eletto imperatore nel 1152, destinato a porre fine al conflitto fra le potenti famiglie dei Welfen – i guelfi, appunto- e gli Hohenstaufen – i ghibellini, dal castello di Waiblingen. Per pacificarsi con i guelfi cedette al capo della loro coalizione, il cugino Enrico il Leone, Sassonia e Baviera, regioni settentrionali ed orientali, quasi a manifestare la volontà di ricostituire il Sacro Romano Impero puntando alla discesa in Italia. Pacificata la Germania, era intenzionato a volgere verso Roma, insorta contro il papa, spodestato, ed in cui era stato proclamato il governo comunale da parte di Arnaldo da Brescia; verso i comuni del nord Italia minacciati dalla smania d’espansione di Milano; e verso l’Italia meridionale, in mano ai normanni. Nel 1154 convocò una dieta a Roncaglia nella quale chiese che gli fossero versati i tributi che gli spettavano, in quanto sovrano, e che i comuni avevano smesso di pagare dopo le violente lotte per l’indipendenza. Dopo aver restituito ad Adriano IV il suolo pontificio, nel giugno del 1155 fu dallo stesso incoronato imperatore. Nonostante l’aiuto concessogli, il papa, temendo che l’estensione del dominio germanico potesse intaccare nuovamente il suo potere temporale, nel 1156 si accordò a Benevento coi Normanni, acerrimi rivali del Barbarossa. Questo, dopo aver annunciato la rinascita del Sacro Romano Impero, nel 1158 emanò la Costitutio de regalibus, che stabiliva che tutto ciò che spettava all’imperatore, a lui doveva tornare. Tornarono anni di guerra, che culminarono con la resa di Crema e la distruzione di Milano nel 1162.

Nel 1167 si formò la Lega lombarda, lega difensiva che combatteva contro le imposizioni di Roncaglia. Non si trattava, come sostenuto invero anche da una certa retorica risorgimentale, di un moto di riscossa nazionale contro il Tedesco, ma di un movimento per la difesa delle casse comunali dalle pretese fiscali di un potere lontano, quello imperiale. Le autonomie comunali in ogni caso non erano a rischio, poiché l’imperatore aveva poco interesse ad intromettersi nelle beghe della politica locale. Morto Adriano IV, Alessandro III, il nuovo papa, si fece campione di questo movimento, timoroso che il potere imperiale potesse divenire tanto forte da condizionare la libertà d’azione e l’influenza della politica papale. Grazie alla sua autorità ed alla sua vigorosa azione si unirono dunque in lega i normanni di Sicilia, i Bizantini ed i Veneziani, minacciati dall’ingerenza del Barbarossa. Nella battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 Federico I fu sopraffatto e nel 1177 si riconciliò col papa riconoscendolo capo legittimo della Chiesa. Con la Pace di Costanza l’imperatore riconobbe ai comuni molte esenzioni fiscali, ma si riservò il diritto di convalidare le elezioni cittadine.

Tutto ciò che nel film è differente da quanto succintamente esposto è spudoratamente falso. Enrico il Leone non fu un traditore, Federico non si “scelse il papa”, la lega non fu solo lombarda, e non furono in soli novecento coraggiosi difensori del ‘Carroccio’ a sconfiggere l’imperatore anche se, certo, i bergamaschi ebbero un loro peso nella ‘Compagnia della morte’, come l’ebbero, tuttavia, anche nell’impresa dei mille di Garibaldi. Già perché si dimentica troppo speso che Bergamo è la “città dei mille”. La storia infatti, come la vita, non è mai a senso unico. Più di tutto, però, la partita vera la giocò il papato che volle difendere strenuamente la propria politica e le prerogative temporali. Ed è proprio questo profilo che, forse, dovrebbe attrarre l’attenzione del lettore attento alla storia. Il papato è stato sempre sensibile al tema delle autonomie locali, comunali, perché è in questo contesto che il suo potere si è potuto affermare ed accrescere, ed è per questo che è stato sempre fiero avversario di ogni progetto unitario e nazionale. Anche le proposte di un cattolico moderato come Gioberti per una confederazione di stati italiani sotto la guida della Chiesa, furono accolte con grande sospetto e freddezza dal papato che se ne disfece non appena le condizioni politiche lo permisero.

Forse è così che può comprendersi la singolare lettura che Federico Rossi di Marignano – che ha ispirato Martinelli – fa di questi avvenimenti storici, riportati spesso in maniera parziale e poco verosimile.

La critica cinematografica, poi, ha messo unanimemente in risalto la debolezza dell’opera di Martinelli dal punto di vista strettamente tecnico – come ad esempio le riprese ossessive dei cavalli, le scene confuse e deludenti della battaglia, la ricostruzione approssimativa della Milano comunale. Insomma, il Senatur è proprio sfigato: almeno Hitler aveva la Riefenstahl.

LAMANODEDIOS

Lo sceriffo e la… pacca

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Il fascio leghista Gentilini ha fatto una delle sue solite sparate. Omofobo dichiarato, xenofobo che non si vergogna di auspicare la soluzione finale per i “bambini zingari”, il vicesindaco di Treviso non ha mai nascosto la sua anima misogina.
A Volpago anni fa Gentilini spiegava cosa dire alle donne prima del voto: «Dirò loro di non fare l’amore col marito o col fidanzato se prima i loro uomini non saranno andati a votare. Le donne hanno un’arma eccezionale e anche quell’arma serve per conquistare Roma». Insomma nella mentalità tipica del fascista Gentilini vede ancora la donna come merce, come strumento di una sessualità da caserma.
Ed ecco che dopo l’ennesimo episodio di violenza sessuale a Treviso, lo sceriffo, avendo constatato che il molestatore non è di etnia rom o particolarmente “abbronzato” ha preferito minimizzare e ha dichiarato che si è trattato solo di una palpata arrivando ad affermare che una “pacca sul culo non è violenza”.
E l’ormai ottontanne leghista è arrivato a rimpiangere i tempi in cui di una “ragazzata” del genere si rideva.
Ricordando che il Codice Penale stabilisce senza alcun dubbio i termini della molestia e della violenza sessuale, vorremmo rivolgerci a tutti quei benpensanti che poco più di un anno fa avevano biasimato il lancio di carciofi nei confronti dello stesso Gentilini in occasione della Festa della Donna. La prossima volta inviteremo le donne a dare un buffetto al flaccido viso del fascistone, perchè tanto… una “pacca sul culo non è violenza”.

Buon compleanno Italia

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Un anno fa abbiamo riempito le strade e le finestre di tricolori. Oggi noi continuamo a festeggiare lla nostra Italia. Vi riproponiamo quanto scrivevamo in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, oggi come ieri sempre attuale. Buon compleanno Italia:

In questi giorni ho avuto l’occasione di girare questa parte di Piemonte, questa piccola porzione d’Italia, questo territorio che qualcuno vorrebbe appartenesse ad una “nazione che non esiste”. Dappertutto, nei piccolissimi paesi come nei centri più grandi, tanti tricolori alle finestre, ai balconi. Non quelli istituzionali, ma quelli comprati spontaneamente nelle edicole, quelli rispolverati da vecchi bauli, quelli  tenuti gelosamente conservati nelle proprie case. E questo per rivendicare l’appartenenza ad una nazione che travalica i confini di queste valli, oltre la linea della pianura che si vede all’orizzonte, oltre gli egoismi di spregiudicati avventurieri che vorrebbero cancellare la nostra storia.

Ma non sono state le migliaia di tricolori, le festose vetrine con i colori della nostra bandiera a far nascere la mia riflessione quanto piuttosto quello che non c’era.
In nessun borgo, in nessuna cascina, ad alcun balcone compariva lo straccetto verde della padania, la “nazione che non esiste”.
E mi sono chiesto quale occasione migliore potrebbe avere un popolo oppresso per esprimere la propria voglia di libertà e  d’indipendenza se non la festa del proprio presunto oppressore.
Ed il mio pensiero l’ho rivolto a quei patrioti che a alla fine delle opere di Verdi con il teatro gremito di austriaci, lanciavano nella sala e sul palcoscenico volantini e coccarde tricolori al grido di “Viva Verdi, Viva l’Italia” .
Ho pensato ai balconi perennemente imbandierati di San Sebastian con i colori di Euskadi o ai vessilli tibetani coraggiosamente esposti a Lhasa.
Ma la differenza sostanziale è che la “nazione che non esiste” ha un popolo che non c’è. Ed è comprensibile il nervosismo che i leghisti hanno evidenziato in questi giorni. Un nervosismo che nasce dalla consapevolezza inespressa del fallimento del loro disegno. Saldamente ancorati alle poltrone romane hanno assistito inermi al tripudio di tricolori della loro gente. Si sono ritirati nervosamente dai luoghi dove suonava l’inno, si sono devotamente rivolti a San Patrizio il santo che aveva “romanizzato” le terre celtiche. Erano coscienti che da nessuna finestra se non da quelle del potere sarebbe comparso lo straccetto verde della “nazione che non c’è” a giustificare la loro esistenza.
Girando per questo piccolo lembo d’Italia ho trovato il passaggio di un  eroe dimenticato, di quelli che la storia mette da parte, di quelli che in silenzio fanno la storia. Lorenzo Valerio aveva poco più di trent’anni quando insieme a Michele Novaro nella sua casa ascoltò per la prima volta quel inno che l’amico Goffredo aveva inviato da Genova. Era il “canto degli Italiani” che lo stesso Novaro avrebbe musicato. Era l’inno nel quale ancora oggi ci riconosciamo, l’inno dal quale scappano i rinnegati in camicia verde. Quel gruppo di poco più che trentenni,  che nel 1847  stava disegnando la nuova Italia, sono certo l’abbia cantato e provato con l’ardore e la gioia di chi sta costruendo un sogno.  Dopo 150 anni quella nenia triste sofferta, quasi sussurrata,  regalataci da Benigni, è stato forse l’emblema di un sogno che stanno cercando di rubarci.
Ho girato per i paesi, per i borghi di questa piccola parte d’Italia e ho preso linfa dai tricolori esposti alle finestre, sui tetti delle cascine,  mi sono inebriato del vuoto dello straccetto verde della “nazione che non esiste” e ho capito che c’è ancora tempo per la speranza.

Ci sono ancora oggi persone che si sforzano di costruire la nuova Italia. L’altro giorno sulla spiaggia di Lampedusa centinaia di giovani rivendicavano il diritto ad un’Italia “colorata” proiettata verso l’Europa, in contrapposizione all’Italia egoista e chiusa che vorrebbero i leghisti e di nuovi fascisti. E questo avveniva nella stessa Sicilia dove Lorenzo Valerio piemontese di nascita , Italiano per vocazione, morì.

E’ tempo per un nuovo Risorgimento.

Dedicato a tutti quelli che credono che questo possa avvenire e che hanno il coraggio di non arrendersi e di continuare ad indignarsi.

Ai nostri amici!

Buon compleanno Italia!!!

la lega delle tasse

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I leghisti tuonano ora contro le tasse. Ma dimostrano di avere la memoria corta

L’autore del libro “Umberto Magno”, Leonardo Facco, ha elencate sinteticamente sul sito del Movimento Libertario (www.movimentolibertario.org) le tasse volute dalla stessa lega negli anni in cui ha governato e che gravano  a tutt’oggi sulle tasche degli Italiani. Eccole nel dettaglio:

Tassa di 30 euro più marca da bollo di 8 per ogni ricorso al giudice di pace.
Eliminata la detrazione del 19% per gli acquisti di abbonamenti ai trasporti pubblici locali;
Eliminata la detrazione del 19% per le spese di aggiornamento degli insegnanti. Cancellato il credito d’ imposta, introdotto da Prodi, del 10% alle imprese che fanno ricerca ed innovazione.
Niente restituzione fiscal drag a lavoratori e imprese. Introduzione della cosiddetta tassa sulla tecnologia (lettori multimediali, telef. cellulari, computer). Costerà circa 100 euro a famiglia.
Aumento tariffe dell’ acqua (grazie alla privatizzazione fatta da Tremonti, art. 23 bis decreto legge 133/2008).
Aumento delle tariffe postali.
Aumento pedaggi austostrade Anas.
Aumento biglietti dei treni, sia regionali che a lunga percorrenza.
Raddoppio dell’ IVA sugli abbonamenti alle pay tv.
Tassa di scopo e tassa sul turismo introdotta dalla Legge 42 fortemente voluta dalla Lega Nord!